La
coppia moderna, secondo la statistica (Dannata
epicurea)
di Mauro Mariani
Quante
volte si è sentito dire "L'opera è morta!".
Lo affermavano con furia iconoclasta i musicisti d'avanguardia, vedendovi
il trionfo dei tempi nuovi su una forma d'arte indissolubilmente legata
al passato. Lo vivevano come un lutto irrimediabile i conservatori,
che credevano di riconoscere nell'incompiutezza della Turandot pucciniana
il simbolo fatale della fine di una storia splendida e irripetibile,
durata oltre tre secoli .Ma da qualche anno l'opera sta dando nuovi
segni di vita. Chi aveva buone antenne se ne era accorto in anticipo,
quando anche i guru dell'avanguardia erano tornati in età avanzata
alla detestata opera, mentre i compositori delle giovani generazioni
avevano ripreso senza complessi a scrivere opere. Non sarebbe esatto
parlare di una miracolosa resurrezione, perché in realtà
l'opera non era mai morta e solo i paraocchi ideologici dei contrapposti
schieramenti avevano impedito di vedere che sempre si era continuato
a scrivere opere vitalissime, rappresentate in tutto il mondo, e che
i loro autori (uno per tutti, Benjamin Britten) non potevano essere
liquidati come soldati giapponesi sperduti nelle isolette del Pacifico,
che si rifiutavano di credere che la guerra era finita e persa. Purtroppo,
dalla prospettiva italiana è più difficile cogliere tali
nuovi sviluppi, perché, mentre gli autori italiani sono tra i
più attivi in questa fase di fiorente nuova vita dell'opera,
i teatri italiani sono quelli al mondo rimasti più legati a una
concezione museale della loro funzione e continuano ad offrire un repertorio
sostanzialmente immutato da cent'anni in qua. La storia dell'opera dunque
continua, ma ovviamente l'opera è cambiata: d'altronde col termine
"opera" già nei secoli passati si definivano prodotti
di teatro musicale disparatissimi, dall'Euridice di Peri al Wozzeck
di Berg. La varietà di significati di cui si è fatta carico
questa piccola parola appare ancora più sorprendente se si confrontano
opere non separate da secoli di distanza ma assolutamente contemporanee,
come il Don Pasquale, "opera buffa" di Donizetti, e il Tannhauser,
"grosse romantische Oper" di Wagner. Tutto questo per dire
che l'opera di oggi, oltre a essere naturalmente diversa da quella del
passato, si presenta sotto gli aspetti più disparati - ognuno
dei quali pone nuovi problemi e richiede soluzioni nuove agli autori
- e di conseguenza offre al pubblico attuale una gamma estremamente
varia di stimoli, più in sintonia con i suoi interessi e il suo
mondo. È questo che la rende viva e vitale.
Non inoltriamoci troppo in questo discorso, perché non è
il luogo per tentare un quadro sia pur sintetico di tutto quanto sta
accadendo all'opera in questi anni. Si può tutt'al più
osservare che, per quanto varie siano le strade seguite dall'opera contemporanea,
un aspetto è rimasto quasi interamente scoperto, ed è
quello della commedia. La sfida a far rivivere il tono di commedia nell'opera
contemporanea non poteva lasciare indifferente un musicista come Matteo
D'Amico, di cui Goffredo Petrassi -che oltre ad essere un grande compositore
era uno straordinario maestro e quindi sapeva cogliere perfettamente
le caratteristiche dei giovani musicisti - ha lodato esattamente la
"mano leggera": quella leggerezza che l'arte della fine del
ventesimo secolo aveva quasi interamente perduto e che era la prima
delle sei qualità che Italo Calvino proponeva al nuovo millennio
nelle sue Lezioni americane.
Nel momento di scrivere una breve opera comica, con protagonisti un
uomo piuttosto avanti con gli anni e una giovane donna, che da dipendente
diventa amante, Matteo D'Amico e Sandro Cappelletto erano consapevoli
di confrontarsi con un precedente lontanissimo ma ineludibile, La serva
padrona di Giovanni Battista Pergolesi. Ma sono partiti dall'intermezzo
buffo di Pergolesi solo per vedere cosa sarebbe successo trasportando
quella vicenda all'inizio dei terzo millennio. Quindi la loro Dannata
epicurea non è assolutamente un calco pergolesiano del genere
del Pulcinella di Stravinskij "su musiche di Pergolesi": se
i loro due protagonisti sono un soprano lirico-leggero e un baritono,
come in Pergolesi, è solo perché questi sono i ruoli vocali
classici per dar voce alla grinta e alla sfrontatezza di una giovane
donna in carriera, che sa bene quello che vuole, e a un uomo più
posato, che già all'inizio dell'opera è in età
matura e nella seconda parte è ormai sull'orlo della vecchiaia.
Si può intravedere dietro Dannata epicurea anche il Falstaff
di Verdi, per la simile duttilità della scrittura vocale, che
va dal canto melodico al declamato, passando e ripassando per tutte
le sfumature intermedie, mentre gli strumenti si rifiutano di "accompagnare"
e sono sempre pronti a commentare, sottolineare e, se è il caso,
contraddire quanto affermano le voci. D'Amico e Cappelletto hanno voluto
dare un indizio di questa lontana ascendenza verdiana col titolo della
loro opera, che originariamente era Dalle due alle tre ed era preso
pari pari dal celebre episodio dell'appuntamento dato da Quikly a sir
John, così come il titolo definitivo deriva inequivocabilmente
dal "dannato epicureo" che Ford scaglia rabbiosamente all'indirizzo
del protagonista nella "commedia lirica" di Verdi. Se il titolo
è un omaggio al Falstaff; sarebbe però inutile cercare
nella musica di Dannata epicurea echi precisi di Verdi.
Molto attento alla propria autonomia, D'Amico non si fa incasellare
in nessuna delle scuole, delle tecniche, degli stili e degli "ismi"
in cui tanti compositori contemporanei hanno ritenuto di doversi arruolare,
come egli stesso dice chiaramente, riassumendo il proprio modo di far
musica in modo pacato ma fèrmo: «Sento la necessità
di uscire da una certa routine compositiva che mette al riparo da molti
rischi, di non ridurmi mai all'esercizio di scrittura, per cercare,
in ogni pezzo, di fare un oggetto che abbia significato, che suoni vero».
Parole semplici all'apparenza, che però implicano - come conseguenza
del rifiuto di asservirsi a tecniche e formule preconfezionate - una
consapevolezza totale dei propri fini e una grande padronanza artigianale
dei mezzi per raggiungerli.
Parlando in particolare di Dannata epicurea, D'Amico ribadisce la sua
idea del comporre come "fare un oggetto", affermando di aver
voluto scrivere una musica "palpabile": insomma un oggetto
sonoro che abbia una sua solida consistenza, che possa essere facilmente
afferrato dall'udito. A questa palpabilità contribuisce la presenza
di oggetti musicali ben riconoscibili, che fanno parte del mondo sonoro
quotidiano, come il valzer, il tango e il jazz: ma questo non si risolve
in un patchwork di generi musicali diversi, perché tutto viene
reinventato all'interno di uno stile personale, che armonizza una libcrtà
agile e sorprendente con un controllo logico e razionale della materia
musicale.
«Se si vuole scrivere un'opera», afferma D'Amico, «bisogna
essere capaci di creare dei personaggi, altrimenti noti c'è teatro»;
a loro volta i personaggi prendono forma e vita con la voce, attraverso
la costruzione melodica, ponendo sempre attenzione a preservare la comprensibilità
del testo, fondamentale in una commedia fatta in gran parte di dialoghi
a botta e risposta. Tra voci e strumenti c'è un rapporto ininterrotto,
elastico e mobilissimo e la consistenza melodica e tematica delle parti
vocali viene controbilanciata da una scrittura strumentale il più
possibile imprevedibile, vivace e sorprendente, ottenuta con un'abile
ricerca timbrica, che però non si pavoneggia mai nella propria
raffinatezza. Un ruolo particolare hanno flauto e sassofono, in quanto
divengono a tratti i sostituti strumentali di lei e di lui, rispettivamente.
Sono anche gli unici due strumenti a fiato che intervengono nella seconda
parte di Dannata epicurea, insieme ai cinque archi, al clavicembalo
e alla percussione, mentre nella prima parte l'organico si arricchisce
di altri strumenti a fiato, includendo anche clarinetto, clarinetto
basso, corno e tromba.
Il differente organico strumentale delle due parti di Dannata epicurea
è funzionale alla struttura del libretto. La prima parte è
ambientata infatti in un ambiente di lavoro luminoso e moderno, cui
corrisponde una musica dinamica e aggressiva, dal ritmo sostenuto e
dalle sonorità taglienti. La seconda parte si svolge vari anni
dopo, nella penombra di una camera da letto, con lui stanco, stempiato
e ingrassato e con lei che ha acquistato in bellezza e anche in sicurezza
e padronanza di sé: questa scena richiede un ritmo più
comodo e una strumentazione più raccolta e non è inopportuno
qualche occhieggiamento a generi musicali più soft, come il tango
a-la-manière-de Piazzolla, il jazz, il valzer e anche una parodia
dello stile set(ecentesco del recitativo secco sorretto da violoncello
e clavicembalo, con un'armonia che diventa improvvisamente tonale.
Dunque è il libretto, come in ogni opera, specie se comica, a
predisporre la strada alla musica. È allora il caso di dargli
uno sguardo più da vicino. Innanzitutto si nota il tono smaccatamente
colloquiale del dialogo, che dà alla vicenda un carattere di
forte attualità e di totale normalità. I protagonisti
sono due, un lui e una lei: non hanno un nome ma sono semplicemente
Homo e Foemina, rappresentanti tipici del loro sesso, come potrebbero
risultare da una rilevazione statistica. E infatti, parallelamente allo
svolgersi della relazione tra Homo e Foemina, un Rilevatore ISTAT snocciola
dati statistici (autentici) dapprima con freddo distacco scientifico,
poi con sempre maggior coinvolgimento, perché anche il Rilevatore
fa parte della realtà che egli stesso analizza con i metodi della
statistica. Questo Rilevatore funziona come un diaframma tra il pubblico
e la scena e insinua il dubbio che quella che sembra una storia d'amore
tra due individui in carne e ossa, sia in realtà solo l'esemplificazione
dei risultati di una rilevazione statistica: è il destino non
solo di Homo e di Foemina, ma di tutti noi, che, anche quando crediamo
di vivere le nostre storie più intime e segrete, siamo solo percentuali
di una statistica.
Il secolare tema della coppia viene questa volta incarnato da una tipica
coppia clandestina dei nostri anni, nata nell'ambiente di lavoro. Come
rivelano alcune espressioni dialettali, si tratta di una coppia siciliana
(è curioso che D'Amico e Cappelletto avessero deciso questa collocazione
prima ancora di sapere che la loro opera sarebbe stata rappresentata
proprio a Palermo) ma questa storia potrebbe svolgersi identica in qualsiasi
altra città italiana (d'altronde le rilevazioni ISTAT riguardano
l'intera realtà nazionale) e non cambierebbe nulla nemmeno a
Sidney o Berlino o Detroit: è la globalizzazione non solo dell'economia
ma anche degli affetti, dei comportamenti e del linguaggio (infatti
le poche espressioni dialettali quasi spariscono davanti alla valanga
di termini inglesi quotidianamente usati da tutti in tutto il mondo).
La nostra coppia viene fotografata in due momenti chiave, l'inizio della
relazione e la sua probabile fine: quel che succede tra questi due punti
estremi della parabola dell'amore non è narrato, ma chiunque
può facilmente immaginarne la grigia normalità attraverso
quanto dicono Foemina ("Venivi quando volevi tu, all'ora che piaceva
a te, una mezz'ora o poco più, poi te ne andavi lasciando magari
un bijou... Per un'amante è troppo lunga la sera in cucina..:')
e il Rilevatore ("Otto minuti è il tempo di un coitus. Tempo
medio intendo, tempo italiano medio di un coitus tra una foemina e un
homo"). A questi due momenti corrispondono le due parti dell'opera,
ciascuna della durata di poco più di mezz'ora.
La prima parte si svolge nella sede di un'azienda in espansione e si
divide in tre scene, che rappresentano il graduale avvicinamento tra
Homo e Foemina. La prima scena è l'incontro tra lui, proprietario
dell'azienda, e lei, giovane stagista alla prima esperienza lavorativa
ma già molto determinata; lei pensa solo al lavoro e alla carriera,
lui crede sia diritto del capo provarci con una dipendente giovane e
bella: un classico! La seconda scena è il momento dell'insoddisfazione
di entrambi per il lavoro, sebbene per ragioni opposte: Homo si è
stancato di fare soldi e basta, Foemina è delusa dalla misera
paga di dipendente con contratto a tempo determinato. Sono ognuno nel
proprio ufficio e si parlano via e-mail, trovando nell'idea di un viaggio
di lavoro insieme la via per risolvere entrambi la propria insoddisfazione.
Nella terza scena la coppia si forma: lui la invita a un concerto, lei
accetta, lui si sente autorizzato a sperare qualcosa di più.
Homo e Foemina concludono la prima parte con un duetto, in cui si può
riconoscere un segreto tributo al Mozart dello stupendo duetto tra Susanna
e il Conte nel terzo atto delle Nozze di Figaro: come in Mozart, trionfano
qui l'ambiguità e l'incomprensione, lei dice e non dice e lui
ne interpreta le parole a seconda dei propri desideri e delle proprie
speranze.
Dopo un rutilante interludio strumentale (un grande valzer visto con
lenti mahleriane), l'azione riprende nella camera da letto dell'appartamentino
da single di lei, dopo alcuni anni. Ora la musica si snoda con un ritmo
meno accelerato, ma le scene da tre diventano sette e quindi sono più
concise. Siamo nel bel mezzo di una litigata tra i due amanti, che ha
tutta l'aria di una resa dei conti definitiva, e le sette scene ne scandiscono
le diverse fasi. Foemina, ancora giovane e bella e professionalmente
in ascesa, si è stancata di questo rapporto: recrimina gli anni
vissuti da amante segreta, tenuta a starsene sempre nascosta ma sempre
disponibile, sottolinea crudelmente la decadenza fisica di Homo, si
sottrae ai suoi tentativi di rilanciare il rapporto. Homo si stupisce
di trovare così feroce la sua Foemina, cerca di ammansirla ricordandole
i regalini e l'intesa sessuale d'un tempo, promette di passare la notte
con lei, come non ha mai fatto in tutti gli anni del loro rapporto,
ma è tutto inutile e deve arrendersi: "Mi stai dicendo:
è finita". E lei: "Infila il cappotto e scendi giù".
Intanto i commenti del Rilevatore ISTAT sottolineano impietosamente,
statistiche alla mano, la banalità in cui si trascina non solo
questo singolo rapporto ma la vita erotica della coppia italiana media.
Eppure la scena finale lascia la soluzione aperta: forse non è
la rottura definitiva ma solo uno dei tanti litigi che si ripetono nella
vita di una coppia giunta quasi al punto di detestarsi ma che, ormai
legata da anni di consuetudine, ancora non trova e forse non troverà
mai il coraggio di separarsi.