Una
drammaturgia musicale sul diverso (Lavinia fuggita)
di Alessandro Mastropietro
Il linguaggio
musicale - e in particolare quello delle drammaturgie musicali - ha
da sempre fatto i conti con il "diverso": non occorre allontanarsi
troppo dai nostri giorni, nei quali il molteplice musicale è
continuamente sotto le nostre orecchie (anche le più selettive,
in direzione "colta", "pop", "trash" o
quant'altro), per scoprire che la "lingua", per quanto accentratrice
e dominante, ha sempre avuto dei territori incogniti, di confine. È
stato così nel momento linguisticamente più "forte"
della storia musicale in occidente, quando la tonalità e il tematismo
potevano assorbire e far propri - in qualche modo - anche i materiali
centrifughi alle loro caratteristiche strutturali: il "musicalmente
diverso" rimaneva tale, ma veniva ricompreso senza colpo ferire
nei confini in movimento della lingua, magari elevandosi alla dignità
di "nuovo", o rimanendo un colore, un'anomalia espressiva,
una tinta esotica.
Oggi che il molteplice è stato istituzionalizzato, un gioco linguistico
con il "diverso" è pieno di trabocchetti: può
essere gratuito (riflettere, cioè, semplicemente lo stato delle
cose, senza modularne e intenzionarne la visione), o può non
esser affatto, rinunciando a qualsiasi aspirazione di linguaggio. E
allora, cosa può essere attualmente il "diverso" per
chi fa dell'espressione artistica la sua meta linguistica? Certo, un
problema comunque collegato all'integrazione del molteplice, problema
che - per la sua valenza generale: sociale, culturale, spirituale...
- non può non farsi sentire anche dentro la musica che voglia
mantenere un contatto con la realtà. Ma forse, un problema riflessivo,
proprio sulla creazione artistica: non I'aliud, il "qualcos'altro",
il banalmente oggettivo, ciò che circonda esternamente; ma l'alter,
l'interiormente oggettivo, il termine di confronto, lo specchio nel
quale si scorgono altre cose vedendo se stessi, l'eterno problema della
libera direzione espressiva... Non un problema di identità, insomma,
ma di ricerca.
Lavinia fuggita precipita in una drammaturgia musicale questo problema,
sia sul livello della realtà narrativa, sia su quello della relazione
drammatico-simbolica tra personaggi: Lavinia non incarna semplicemente
il "diverso", in una Venezia che - per antiche tradizioni
- con tante diversità era abituata a convivere; ella sente interiormente
il diverso: è stata educata cristianamente, ma i suoi natali
- la percezione profonda del suo esistere - sono "altrove";
l'unico personaggio in cui può specchiarsi è Vivaldi,
un musico-compositore, col quale il suo operare finisce per confondersi.
Attorno a lei, la dimensione corale si realizza in una corte femminile
che si sente affascinata, o addirittura minacciata (la Priora), dall'alterità
di Lavinia, e - nonostante tutto - continua fino in fondo ad averne
una sensazione enigmatica.
L'avvio del lavoro, nella costruzione dei piani drammatici e musicali,
è emblematico: dapprima si viene proiettati in medias res, con
Priora e "pute" che si preparano affannosamente per un concerto;
la musica è brulicante, leggermente inquieta, ma sottotraccia,
nei toni del piano, e proietta tra gli strumenti piccole figure ornamentali
o ritmi sincopati. È il piano della realtà, sul quale
il "diverso" di Lavinia viene ignorato: la sua presenza si
fa sentire in orchestra, nei ritmi delle percussioni, ma Lavinia in
scena non si trova, e innesca un concertato a 5 che attraversa varie
fasi. Nel mezzo, un fermo-immagine lirico: è la voce di Lavinia,
quasi fuori dal tempo, che canta la sua tensione verso l'altro, su un
orizzonte strumentale ora sospeso, pieno di echi e di bolle di materia
sonora, ora acceso dal comparire di un ritmo e un melos inconsueti.
Ancora, il ricordo recitato di Orsola, la "puta" che le è
stata umanamente più vicina: un flash-forward (il contrario del
flash-back), a tanti anni di distanza, un interrogarsi da fuori sulla
vicenda, e anche un recuperare l'impianto narrativo dell'originale di
Anna Banti.
I tre piani (Lavinia: il sentimento interiore del diverso; il gineceo
dell'Ospedale: l'avvertire il diverso senza riuscire a farlo proprio;
Orsola: che racconta - ma non canta - quale narratrice esterna) continuano
a intersecarsi, drammaturgicamente, fino alla fine. Ognuno di essi ha
una vocalità sua propria, che dà ai personaggi una sostanza
più concreta del simbolo. II canto di Lavinia, ad esempio, è
mobile, paradossale, si appoggia su alcuni centri ben precisi - i registri
più efficaci di un soprano lirico-leggero - ma li trasfigura
prontamente: gli archi melodici partono spesso dal registro centrale,
e lì gravitano quando la vocalità è sillabata-parlata,
con moduli scalari orientaleggianti; ma se svettano verso l'alto, reinventano
il belcanto tradizionale nell'arabesco, nell'in-canto lirico ed intenso,
o nel gorgheggio di acuti cristallini. Le voci delle altre donne (quando
non sono soliste, come nella scena della cerimonia-scandalo) si adattano
a una scrittura madrigalistica, ora sfaccettata per imitazioni, ora
più ariosa e distesa; quella della Priora si distingue per una
prosa recitativa.
La voce è, dunque, il principio d'individuazione dei personaggi,
così come lo strumentale ne è lo specchio più liberamente
rifrangente. L'organico scelto contiene già una grande duttilità
di soluzioni: due quintetti, quello classico d'archi, quello di fiati
con modifiche significative (se l'oboe, veneziano-settecentesco, per
antonomasia, è obbligatorio, il sassofono - col suo timbro camaleontico
e legante - si segnala accanto agli scambi clarinetto/clarinetto basso
e flauto/ottavino, che stirano le estremità della tavolozza).
E al centro, altre due presenze anfibie, un set di percussioni, e la
chitarra, strumento antico e moderno, orientale e occidentale, personaggio
timbrico dalle ampie risonanze: può suonare come un clavicembalo,
ma ricorda il liuto nato in Oriente. Nello strumentale, si propaga spesso
quel gesto espressivo di apertura melodica proprio di Lavinia: sviluppato
in arpeggio, modellato in differenti gradi di incisività articolativa
e armonica, quel gesto viene compresso altrove in brevi, nervosi scatti,
o risucchiato in pedali (gravi e acuti) dal timbro fluido e cangiante,
in cui è la materia sonora a venire in primo piano. Circola così,
nella partitura strumentale, una temperatura variabile e insieme unitaria,
una tensione molteplice, che entra in dialogo con le voci, e che tesse
le fila degli slittamenti di linguaggio. Come un'altra opera di D'Amico,
Farinelli, la voce perduta (1996), Lavinia fuggita è un'opera-sulla-musica,
che può annodare così materiali sonori storicamente (oltre
che geograficamente: quelli orientaleggianti) riconoscibili. Tre sono
i luoghi dell'intreccio musicale, che costruiscono quest'intreccio:
1 - Le "pute", alla ricerca affannata di Lavinia dopo la prima
scena, la trovano nello studio di Vivaldi, intenta a scrivere un'Aria,
subito provata "a tre voci"; la melodia è tolta dalla
Juditha Triumphans vivaldiana, ma adattata a versi metastasiani: un
travestimento che genera gradualmente una trasformazione stilistica,
per cui l'Aria - nella quale Lavinia insinua i suoi aerei arabeschi
- si conclude in sospensione.
2 - Finalmente, il "concerto delle pute" si presenta al Doge,
l'occasione è ufficiale, occorre una musica adatta... Ma Lavinia
ha sostituito la prevista Aria di Vivaldi con una sua, che è
in realtà un'arioso dello stesso D'Amico intonato su versi del
Tasso; l'arioso viene, attraverso una scrittura vocale frastagliata
e simile a quella strumentale, reso più complesso, in qualche
modo (con percorso inverso all'Aria precedente) "vivaldizzato",
seppure in forme incongrue ai canoni stilistici del modello: quell'Aria
'non è musica', e la cerimonia pubblica si tramuta in scandalo.
3 - Vivaldi, al tavolino, analizza il volume di musiche lasciato da
Lavinia ormai sparita con l'enigmatico vascello del Turco; fa osservazioni,
migliora, fa quadrare l'inventiva notevole ma istintuale di Lavinia,
modellandovi gradualmente il suo Inverno, mentre fuori scena un coro
di tre "pute" spande una polifonia sopra-le-righe, "lavinizzata".
L'opera si conclude con un terzetto sospeso: tre voci, equivalenti ai
tre piani (Lavinia, ormai lontana, quasi immaginata; Orsola, che ha
riconosciuto nell'amica quell'istanza di libertà, ma ha seguito
una sua strada; la Priora, che chiama ostinata Lavinia come avvertendo
inconsapevolmente il senso di quell'assenza) galleggiano quasi immobili,
mentre la umbratile trama strumentale dà voce sfumata a quella
domanda di ricerca, di confronto con l'altro, di inquietudine creativa,
che Lavinia ha materializzato. Come far sì che Lavinia spieghi
libera le sue vele per l'altrove, ma che non fugga dall'orizzonte dell'espressione?
La "logica della libertà" della musica di Matteo D'Amico
può essere una risposta...