Matteo D’Amico: la logica della libertà
di Alessandro Mastropietro

La ricerca compositiva di Matteo D'Amico (Roma 1955) sembra essere governata lungo tutto il suo dispiegarsi cronologico, dal compenetrarsi di due fondamentali protocolli di pensiero: quello improntato ad un controllo logico e razionale della scrittura da un lato, dall'altro quello che fa capo ad una conduzione agile, spesso sorprendente e ricca di contrasti, in definitiva massimamente libera dell'oggetto sonoro ordito.
È bene sgombrare subito il campo da possibili equivoci puntualizzando su due questioni basilari:
1) quando si parla di controllo logico, non si intende alcun riferimento a quelle avanguardie che, a partire dagli anni 'S0, hanno feticizzato tale sistema di controllo compositivo andando incontro ad una mistica del numero e quasi ad una alienazione del proprio pensiero compositivo nel meccanismo numerico. La razionalità di D'Amico esiste tutta all'interno di un pensiero sonoro e dei concreti oggetti che esso ha prodotto, e senza autocompiacersi del proprio rigore logico si pone a servizio della chiarezza e della discorsività nella costruzione sonora: chiarezza del percorso formale, del profilo delle figure musicali e della loro trasformazione nel tempo, piena discorsività degli elementi sonori (a tutti i livelli del lavoro compositivo) nel senso di un loro interrelarsi e concatenarsi con una non rara febbrile e vorticosa elettrizzazione.
2) queste due forze inoltre non si inverano mai, nei lavori di D'Amico, in due principi rigidamente oppositivi e contrastanti, ma coesistono in simbiosi perfetta ed operativa conferendo alla sua produzione un carattere distintivo ed una personalissima ed inconfondibile attitudine nei riguardi della materia sonora, animata e percorsa da fremiti che ne scandagliano appunto le potenzialità discorsive.
Anche nella cronologia del catalogo di D'Amico questi due principi non si trovano mai isolati l'uno dall'altro nemmeno nei lavori degli esordi, segnati senz'altro dal passaggio attraverso la scuola di Franco Donatoni del quale è stato allievo tra il 1981 e l'83; è naturale che la contiguità di un modello compositivo dalla forte impronta logico-razionale come quello donatoniano faccia porre l'accento, in questi lavori prevalentemente cameristici e strumentali, sulla prima componente evidenziata all'inizio. Eppure vi si riconosce chiarissima ed essenziale un'altra presenza, quella di Goffredo Petrassi, che non ha solo influenzato genericamente l'autore in quanto parte di un ambiente (quello romano) sempre ricettivo alla lezione petrassiana, ma gli ha fornito proprio un esempio di connubio tra rigore interiore e libertà d'invenzione, di chiarezza cartesiana esercitata su una materia sonora bruciante e mobilissima, insomma di profonda modernità ed insieme di consapevolezza delle proprie radici storiche, individuate in una lunga tradizione i cui interlocutori eletti finiscono con l'essere, per necessità storica ed espressiva, i grandi maestri del '900 storico.
Il terminale ideale del dialogo compositivo di D'Amico ci sembra essere, nel caso di Notturno per flauto, violoncello e pianoforte (1982), il Bartók delle "Nachtmusik" disseminate in molti movimenti lenti di suoi lavori (principalmente si ricorda l'omonimo brano da All'aria aperta per pianoforte), nei quali il grande compositore ungherese pare auscultare il mistero notturno ed i fremiti sommessi di una natura quasi immobile e pietrificata. Il paesaggio lunare e raggelato evocato dallo stesso D'Amico quale chiave di lettura assolutamente non-romantica del lavoro acquisisce un riferimento a Bartók non solo (e non tanto) nella scrittura, qui decisamente più articolata e direzionata, ma anche nel materiale che ne governa appunto il tragitto formale: esso tende ad organizzarsi secondo i tre ben noti assi di settima diminuita (Do-Mib-Fa#-La, Do#-Mi-Sol-Sib, Re-Fa-Lab-SI) attraverso i quali Bartók riorganizza il totale cromatico salvaguardando sia una strutturazione simmetrica stimolata dall'eguaglianza dei 12 semitoni, sia una gerarchia funzionale ereditata dal linguaggio tonale; il primo asse dei tre è senz'altro quello principale, e scandisce la grande e media forma del lavoro creando altezze di riferimento evidenti nella scrittura e nell'ascolto. Il decorso del brano è poi regolato dalla condensazione e rarefazione di figure che si innestano, nella loro forte riconoscibilità ritmica e timbrica, sugli assunti intervallari derivati dalla base bartókiana (terze minori, scale a toni e semitoni alternati); una scrittura omogenea per punti isolati, per leggeri filari di scale o di trilli, per contrappunti enunciati nei registri bassi o avviluppati da concrezioni accordali del pianoforte si alterna dunque a momenti di divergenza nella conduzione dei tre strumenti, scandendo con chiarezza e precisione la direzionalità formale senza sovrastare il milieu generale del brano (che si mantiene sempre coerente) e soprattutto senza inficiare di meccanicismo la libertà e la fluidità di questo percorso formale.
Già in questo fortunato lavoro, che pure rinvia in molte sue caratteristiche di procedura e di materiali compositivi a Donatoni, si evidenzia insieme il debito e l'indipendenza dal modello che l'ascolto di altri lavori del periodo (il Trio per archi e Non plus per ensemble su tutti) può confermare appieno: la "scuola" donatoniana non è altro che un instrumentum, un mezzo senz'altro importante nell'acquisizione di collaudate tecniche di scrittura, di una capacità di profilare con nettezza le figure musicali guida e di animare la trama sonora di fremente vitalità materica. Ma proprio nella tenace ed attentissima concretezza del suono, nell'ascolto del suo germinarsi in reti fortemente discorsive e del suo emergere con chiarezza e riconoscibilità di contrasti dinamici, ritmici e timbrici sta la cifra personale perseguita e raggiunta con assiduo sforzo da D'Amico, reinserendo nel gioco compositivo una variabile (quella del tempo musicale) che può apparire scontata e sottintesa ma che proprio nel pensiero musicale iper-strutturalista è stata spesso considerata accessoria, automatica o congelata in scmplici variabili di stato. Il tempo musicale in D'Amico ha una sua profondità stratigrafica, è capace di fermarsi ad auscultare le ruvidezze o le dolcezze del suono come di trascorrere vorticoso nel concatenarsi degli eventi, di cambiare con continuità e senza fratture la propria velocità psicologica, in definitiva di essere realmente complesso, mostrandosi peraltro sempre più disponibile ad accogliere in sé un'altra complessità ulteriore, quella della mernoria.
È sotto questa luce che possiamo leggere le Cinque variazioni su un tema di Mozart (dall'Aria "Porgi amor qualche ristoro") per cinque strumenti (1991), nate secondo le stesse parole dell'autore «...grazie a una delle sollecitazioni creative emerse dal gran fiume delle celebrazioni mozartiane [...] ed ulteriore episodio del gioco a rimpiattino tra antico e moderno così in voga di questi tcrnpi.» Si percepisce in queste frasi la sottile e non meno radicale alienità alla "voga", ovvero al gusto della musica al quadrato come pura moda, e nel brano il rispetto per lo stupendo spunto melodico mozartiano (la cui esposizione è affidata ai due fiati in pianissimo) che tuttavia non gli impedisce di essere avvolto in una trama nebbiosa eppur costruita con cesello e precisione da filigrana nei tre archi: del tema viene mantenuta sempre la struttura arrnonica e metrica, humus fertile sul quale fioriscono figure e situazioni sonore nuove nel giuoco compositivo del brano in questione, ma anche riscontrabili altrove nella produzione dell'autore, che così affonda i riferimenti della memoria nel contesto della sua produzione. L’ancoraggio alla struttura del tema non nega anche qui la continuità e la libertà del percorso formale, la cui direzione va mettendosi a fuoco nel nascere stesso del gioco variativo e si giova della presenza (appunto nella struttura stessa del tema) di un episodio di transizione finale che permette articolazioni interne e collegarnenti continui tra le variazioni. Lo spunto di partenza si scioglie sempre più nella trama fino al vorticoso animarsi di quest'ultima nella variazione finale che, nonostante la forte alterità della superficie sonora, continua a mantenere un sottile e saldo legame strutturale col tema evidenziato dalla assertiva cadenzalità conclusiva.
Nel suo personale tragitto artistico di sintesi tra logica e libertà D'Amico ha dovuto incontrare abbastanza presto (conclusa la donatoniana fase iniziale di acquisizione di strumenti duttili e potenti) il problema del rapporto tra musica parola e poi, sempre più intensivamente a partire dagli anni '90, del rapporto tra musica, poesia, teatro e danza. Nel capitolo introduttivo di questo confronto è stato basilare l'incontro con la poesia di Mallarmé, alla base de I.'Azur per soprano e 7 strumenti ( 1988) e del Monologue d’un Faune per voce recitante e pianoforte (1989); incrociare le ragioni della parola poetica può infatti essere, per qualsiasi autore musicale, un momento di "messa tra parentesi" del proprio universo compositivo chiuso ed un aprirsi al diverso, all'altro del linguaggio poetico che, pur legato innegabilmente al suono, getta inevitabilmente dei ponti con la comunicazione concettuale del linguaggio verbale; e qui possono scattare i rischi di una concomitante "messa tra parentesi" della propria libertà, immolata sull'altare di un'isomorfia alle cogenti strutture verbali e pertanto di un'omologazione ad esse.
Dice bene Sandro Cappelletto quando sostiene esservi, nell'affrontare un testo poetico da parte di D'Amico, una timida e tenace devozione nell'avvicinarsi alle "parole chiave", agli "affetti", insomma al "senso" (e non alla semplice struttura) dei testi; quale migliore autore di Mallarmé, allora, nel quale il senso si fà sempre sfuggente e incline a diventare suono, nel quale (stavolta secondo le parole di D'Amico) «...le parole non credono mai fino in fondo a se stesse». Se la parola poetica di Mallarmé tende a manifestarsi per subitanee apparizioni, che subito contraddicono la loro realtà e si dissolvono nel loro contrario logico (con brusche virate di tono) e concettuale (nel puro suono), la scrittura pianistica del Monologue avrà il duplice compito di assecondare questi trascoloramenti e di dar loro continuità di flusso, attraverso una scrittura mobile cd insieme unitaria, ripensata a partire da quella raffinatissima e gravida di sviluppi degli autori francesi di inizio secolo (Debussy e Ravel anzitutto); essa va perciò, riprendendo ancora una felice espressione di Cappelletto, verso ed insieme contro il testo di Mallarmé, che ricordiamo essere qui la prima e più sensuale versione del celebre poemetto L'.Après-midi d'un Faune, così come la scrittura strumentale va (in L’Azur) verso ed insieme contro il canto. Certo, il contrappunro e la direzionalità della parte pianistica rispctto al testo recitato si iscrivono qui maggiormente sotto la categoria dell' andare verso, vista l'assenza di un punto di allineamento linguistico che il canto, con la sua diastematicità può fornire; eppure il discorso pianistico, modellato sulle impressioni del testo, ne fornisce una visione parallela ed indipendente, cimentandosi nell'arduo compito di ricreare modernamente quel sentore di unità tra le differenti espressioni artistiche che animò la stagione dell'impressionismo francese.
I cimenti poetici, ed ancor più quelli teatrali, degli ultimi anni testimoniano nell'opera di D'Amico il persistere, equilibrato e denso di rilevanti risultati, delle due componenti di rigore logico e libertà; potrà apparire che, dato l'ambito del suo lavoro, l'accento si sia spostato sempre più verso la seconda componente: questa osservazione sarebbe superficiale ed inesatta, senza ricordare l'irrinunciabile ed ormai genetico persistere della prima componente e senza precisare l'esatta natura di questa libertà.
Si tratta infatti di una "libertà di...", e non di una "libertà da...", accezione quest'ultima pericolosamente limitativa, comune tanto alle fossilizzazioni delle avanguardie del secondo dopoguerra (ormai storiche anch'esse alle soglie del 2000) quanto ai rigetti violenti e polemici di alcuni loro tratti, pure indiscutibili segni della nostra contemporaneità. Questa "libertà di...", autentica cspressione di apertura ad un molteplice alla cui fenomenizzazione attuale D'Amico profonde il suo impegno di organizzare, si è di recente sostanziata nella possibilità sempre più ampia e fertile di dialogare con alcune figure che, all'inizio di questo secolo e dunque della "nostra" modernità, hanno additato la strada di questa libertà; nella "libertà di" scegliersi i propri riferimenti, l'attenzione di D'Amico si è incentrata su alcuni autori in particolare: oltre ai già citati, sarebbe d'uopo ricordare qui almeno Stravinsky (il nume della religiosità severa ed interiore di Jubilate Deo, un lavoro del 1991) e Berg, al centro delle riflessioni sul teatro musicale assieme ad un suo paradigmatico continuatore, Hans Werner Henze.
Mauricc Ravel (1875-1937) ha però, in questo dialogo fecondo, un posto realmente privilegiato, anche in termini di rielaborazioni e stumentazioni di sua musica; di Ravel verranno eseguiti oggi non casualmente La flúte enchantée da Sheherazade (1903, su testo di T. Klingsor), le Chansons Madécasses (1926, per voce e tre strumenti) ed alcune trascrizioni dello stesso D'Amico da L'Enfant et les sortiléges, tutti lavori che in tempi diversi della parabola artistica raveliana segnano una maturazione profonda del rapporto tra musica, canto e poesia. Ploc per voce recitante ed ensemble (1998) è solo l'ultimo atto in ordine di tempo di questo dialogo, e nasce come prologo alla rappresentazione del secondo atto dell'opera L'Enfant et les sortiléges ultimata nel 1925 su libretto della scrittrice Colette. Il brano ripercorre le vicende dell'atto (riconfezionate in un testo in forma narrativa da Sandro Cappelletto), il quale illustra in un'atmosfera di sogno fiabesco, divertito e non alieno da un poco di crudele acume psiconalitico, il ribellarsi di oggetti ed animali alle marachelle di un bambino svogliato e vivace, prima che questi, pentito e reso più buono dalla lezione, torni a rifugiarsi nel grembo della mamma. Questo "omaggio a Ravel" consiste in una rilettura di alcuni spunti musicali tratti da episodi dell'opera, rilettura in cui il gioco della memoria e 1'ironia dell’autore nel “saltare" (come la Rana dell'originale con il suo "ploc" idiomatico) da una situazione all'altra assolvono un ruolo di primo piano. Il giuoco îronîco è anche un po ' autoironico, e mostra il compositore in un ruolo "funzionale" che sempre più oggi si ha "libertà di" prendere, a patto di non derogare al valore artistico dcll'operazione; un modo è quello (non infrequente in D'Amico come in un numero sempre più consistente di autori contemporanei) di sapersi ricollegare a quelle fonti della modernità musicale novecentesca nelle quali si può ancora aprire la propria finestra creativa senza tema di retrazione del linguaggio.
Non solo nello specifico campo della musica funzionale, il `900 storico si sta infatti dimostrando una sorgente inesaurita di approfondimenti e sviluppi personali: alcuni hanno già avuto un esito ragguardevole ed imprescindibile per chi voglia pensare musica oggi, in particolare con i nuovi mezzi elettronici e digitali. Se da un lato il riferimento naturale e coerente alle avanguardie del secondo dopoguerra non esclude in via rnediata il ricollegarsi alle fonti protonovecentesche della modernità musicale, dall'altro anche lo sguardo in profondità direttamente rivolto a quelle fonti e inevitabilmente intriso di attuale e contemporanea sensibilità della visione (arricchita ad esempio dalle nuove concezioni scientifiche e dalle nuove conoscenze cognîtîve) assirura il collocarsi nell'alveo di questa modernità.
Una modernità fatta in egual misura di logica e libertà.