Un check-up, per individuare la fisionomia di Matteo D Amico, giovane
compositore di, fine secolo.
Nasco come musicista in modo tradizionale, senza nessuna vocazione improvvisa,
vale a dire attraverso un lavoro paziente. Una scoperta lenta e graduale,
venendo da una famiglia che ha sempre frequentato e praticato la musica.
Alla fine degli studi è nato un interesse al fatto musicale,
sorretto e incoraggiato da una musicista che tengo a ricordare, Barbara
Giuranna, persona di tale entusiasmo, spontaneità e ricchezza
musicale da darmi incondizionatamente la spinta iniziale decisiva, fortissima.
Senza un mentore, allora, non si diventa musicisti?
Dipende dai casi personali. Ci sono personalità talmente forti
da non aver bisogno di nessuno per scoprire la propria vocazione. Altre
hanno bisogno di sollecitazioni. È anche una questione di fortuna:
incontrare persone che aiutano ed irrobustiscono non solo la conoscenza
tecnica, ma anche quell'ideale ricchezza racchiusa in ciascuno di noi
e che deve trovare le strade giuste per emergere. Per me sono stati
Guido Turchi, Irma Ravinale e Franco Donatoni. La cultura italiana non
è abbastanza riconoscente nei loro confronti: sono artisti di
grandissima levatura che dovrebbero essere molto, molto più conosciuti
e rispettati. In qualche modo mi hanno attratto e fatto scoprire quanto
ricco sia il mondo della musica, e quanto, personalmente, non avessi
le caratteristiche dell'esecutore, ma del compositore. L'interprete
ha bisogno di un autocontrollo emotivo che io non posseggo. Invece,
dal punto di vista musicologico e compositivo, ho percorso tutti i gradi
dell'educazione musicale, in Conservatorio, per passare poi al perfezionamento
e a stabilire rapporti intensi con i protagonisti della scena musicale
italiana, sino alle prime esperienze di lavoro. Chi sente questa passione,
sappia che la sua crescita è segnata dall'abitudine e da un fare
artigianale rimasto immutato nei secoli. Così come le difficoltà,
gli inciampi e i muri che si incontrano su questa strada.
Ha citato due caratteristiche che credo contraddistinguano
la Sua personalità e lo stile: emozione e controllo. Che cosa
significano per la musica che ne è il risultato?
Il controllo è una parte della quale non si può fare a
meno, soprattutto alla fine del millennio, con le inquietudini che stiamo
vivendo e dopo tutto quello che ha attraversato la musica in questo
secondo cinquantennio del nostro secolo. In fondo, già vediamo,
alla fine del secolo scorso, quanto di razionale, di controllato e di
rielaborato ci sia nel modo di comporre e di lavorare di Brahms: dunque,
già un secolo fa i più grandi compositori avvertivano
questa improcrastinabile esigenza. Oggi, per me, pensare la musica in
maniera discorsiva, razionale, sempre cercando il massimo della levigatezza
formale, della perfezione di scrittura, è diventata un'esigenza
connaturata al mio modo di essere musicista. Grazie agli insegnanti
che ho avuto, musicisti che privilegiano un approccio intellettuale,
non emozionale, con il fatto musicale.
D'altra parte, credo che scrivere musica solo dal punto di vista calligrafico
e cerebrale sia abbastanza inutile, visto che oggi più che mai
si avverte la necessità di raccontare qualche cosa di se stessi,
almeno le emozioni maturate non solo nella dimensione dell'esistenza,
ma anche in quella della cultura e dell'arte. Torquato Tasso e la riscoperta
delle sue rime sono stati un'emozione.
Una relazione voluta o forluita con il poema di Liszt.?
Liszt è amatissimo sia da me che dal Maestro Sinopoli. Quello
orchestrale, poi, mi sta sorprendendo sempre di più: forse lo
conoscevo poco o l'avevo sottovalutato. Ma penso che la sua modernità
di intendere il suono sia sempre più evidente alle nostre orecchie.
È stato davvero un pioniere della ricerca timbrica, insieme con
Berlioz. Il comune riferimento a Tasso non è una forzatura, ma
una passione che forse ci ha accomunato. La conferma, insomma, della
felice accoppiata, in Liszt come nelle rime del Tasso, d'emozione e
intelletto. Entrambi grandissimi artigiani, l'uno della nota e l'altro
della parola; squisiti, ma al servizio di una materia che ribolle d'intensità
emozionale, di gioia e di dolore, giocate con somma maestria ed eleganza
formale.
Dunque, è nella letteratura a “servizio''
della musica che trova rnotivi d'ispirazione.
Certamente, perché l'equilibrio e dunque la dialettica tra i
due momenti, emozione e controllo, trovano, proprio nel riferimento
esterno alla mia musica, una norma, una disciplina e sono sicuramente
il fatto più interessante da vivere e da sperimentare nell’atto
compositivo: una continua battaglia tra l’urgenza dell’espressione
e il controllo dell’artigianato, della forma. Vale per Tasso,
maestro dell'inquietudine e della sapienza verbale, ma anche, ad esempio,
per un poeta più vicino a noi come Mallarmé, del quale
ho utilizzato alcuni testi per opere cui sono assai legato, come L'Azur,
per soprano ed ensemble da camera, il mio pezzo più fortunato
in assoluto, ed un'altra serie di liriche, per baritono e orchestra.
Sonnets et rondels.
Quindi, all’origine della invenzione e della scrittura
musicale di D’Amico troviamo sempre un testo poetico o un fatto
teatrale?
Ho poca fiducia nella musica assoluta! Non sostengo che il riferimento
ad un testo faciliti il lavoro del musicista, ma certo personalmente
mi aiuta a plasmare lo stato d'animo, a vivere un'emozione più
strutturata, piena, vera. Il rapporto con la letteratura, e forse con
le altre arti, proprio per la crisi che sta attraversando il linguaggio
musicale oggi, credo sia una delle possibili sorgenti vitali della musica.
Le difficoltà del quotidiano per un compositore.
Oggi non vive più di quelle che potevano essere le premesse,
e in qualche modo le sicurezze, del passato. Con le finalità
intrinseche al suo lavoro. Nel Seicerzto la corte, nel Settecento il
palazzo. nell'Ottocento il salotto o il teatro. Nel Novecento tutto
il contenitore sociale si è liquefatto, tutte le certezze sono
evaporate, e con esse le mete. Altri ambiti sono sorti, in cui fare
musica. E i primi sono stati quelli prodotti dalla commercializzazione
nel villaggio globale, che ha imposto regole ferree e creato un pubblico
nuovo, eterogeneo, "leggero". Questo ha influito in modo drammatico
sui contenuti e i protagonisti del villaggio ristretto della musica
colta, con effetti dirompenti: elitarismo, settarismo disorientamento,
demoralizzazioni, atti di chiusura ipocrita. La musica colta non vive
della pubblicità, né dei supporti economici della produzione
e distribuzione, e tanto meno dell'offerta di spazi da poter riempire
con migliaia di giovani semoventi ed eccitati. Non ha certezze né
sicurezze. Quali sono, allora, per Matteo DAmico le regole del gioco
e le mete che un compositore trova sul suo scrittoio, nel suo quaderno
a righe?
Non deve aspettarsi troppo, né da se stesso né
dal suo lavoro. Proprio per il tipo di situazione generale in cui si
trova ad operare. Bisogna tenere presente che il tipo di musica che
noi pratichiamo è fatalmente un'arte che vive un momento di crisi,
stagnante ormai da molti decenni; un momento, inoltre, in cui non è
più, come nei secoli che citava, un fatto culturale in prima
linea, ossia di primario interesse. Oggi sono altri i mezzi d'espressione
culturale e artistica all'avanguardia. Basta pensare al cinema, che
ha raccolto l'eredità del teatro d'opera del secolo scorso, con
la capacità di raccogliere i sogni, l'immaginario collettivo,
le aspettative di una società. È inutile negare che oggi
questo ruolo, almeno a livello quantitativo, lo assorbe più il
cinema, di quanto non possano fare il teatro o la musica. D'altra parte,
è vero che la musica classica, pur vivendo un momento di grande
difficoltà, mantiene un suo ruolo di testimonianza, estrema propaggine
della tradizione musicale occidentale. Sarebbe pericolosissimo arrivare
al silenzio e alla rinuncia, perché sono convinto che qualsiasi
epoca abbia il dovere di testimoniare quello che è e quello che
vive, facendolo attraverso tutte le forme, tutte le manifestazioni artistiche
e culturali che gli sono proprie, tra cui rimane, bene o male, la musica,
con il suo grande potere di fascinazione. Un esempio: il grande sviluppo
della musica elettronica, la suggestione della musica acustica, che
credo ancora non possa essere sostituita da alcun altro mezzo. ed anzi
deve essere aiutata e integrata. C'è ancora qualche cosa da testimoniare,
con la massima sincerità e serenità, possibilmente senza
intellettualismi e volontà ideologiche. Credo che proprio questo
momento storico, di là dalle tante difficoltà ed interrogativi
che pone, un regalo ce lo fa: la possibilità di liberarci dai
dogmi, dalle ideologie, dai falsi ideali, cose che hanno nuociuto ad
un corretto sviluppo del linguaggio e della esperienza musicale nel
secondo dopoguerra. Ognuno dovrebbe essere libero di esprimere la propria
personalità e testimoniare il proprio tempo nella forma che crede
più opportuna. Senza farsi troppe illusioni, o credendo di scrivere
pagine di rilevanza storica. Nel contesto sociale la nostra voce è,
per forza di cose, una voce molto flebile, una voce di minoranza, di
piccoli numeri in un mondo che vive invece di quantità. Quindi,
il nostro lavoro è forzatamente un lavoro che interessa pochi,
ha pochi canali di comunicazione e poche possibilità di circuitazione,
anche se con scenari leggermente diversi in ogni Paese d'Europa, secondo
la società e la cultura musicale ivi diffusa. Ma a livello mondiale,
le cifre che interessano la musica classica sono cifre di retroguardia,
non di primo piano. Il valore che dobbiamo coltivare, però, ci
sprona a non cedere alle suggestioni e continuare nella missione artistica
della musica.